La liturgia della Chiesa ci fa entrare nella grazia di un nuovo anno liturgico. Grazia a caro prezzo, come diceva Bonhoeffer, ma che sembra quasi sprecata, come la generosità del Seminatore divino che sparge il seme in ogni dove, persino sulla strada impermeabile e inospitale. Lui solo sa che ogni uomo è un insieme di terreni non sempre accoglienti, ma che, laddove si rendono tali, rendono ora «il cento, il sessanta, il trenta per uno». Lui solo sa che strade lastricate si trasformano in terreni ospitali. Perché non è mai finita la sorpresa di chi, sentendosi refrattario e impermeabile, vede la grazia di un seme gettato nella propria vita, con impareggiabile e commovente liberalità, in attesa che porti frutto: è la speranza incrollabile di Dio, per ciascuno di noi.
L’avvio dell’anno liturgico ci ricorda questo dono. Prima di essere una indicazione di cose da fare o di modi di essere, è la vita di Dio da accogliere. Infatti il nuovo inizio riprende il racconto della storia di questo dono, dalla venuta nella carne del Figlio, annunciata dalle Scritture, alla sua passione e croce, alla sua Pasqua di risurrezione, fino al dono dello Spirito che abita in noi e ci fa rivivere tutto questo, aprendo sentieri di inimmaginabile novità. E se le feste ci sono, non è per introdurre qualcosa di diverso da Gesù Cristo, ma per parlarci di Lui, meglio, in modo più approfondito, più vero. Cosi che il succedersi dei vari misteri, secondo il nostro Lezionario, di domenica in domenica, di Incarnazione (Avvento e Natale), Pasqua (Quaresima e tempo pasquale) e Pentecoste, diventano realmente per la Chiesa l’occasione dell’annuncio di Gesù Cristo, tempo in cui risuona il suo Vangelo, tempo in cui viene ridetta in noi la necessità di una conversione. È questo il senso di questo nuovo inizio.
Ma abbiamo voglia di ricominciare? Ciascuno può utilmente chiederlo alla sua profondità: ho ancora voglia di ricominciare? Rinunciare è il rischio di sempre. Delle epoche troppo piene come di quelle troppo vuote. E noi siamo in una di confine, tra l’una e l’altra, per un verso troppo pieni e per altro, troppo vuoti. Il rischio di questi passaggi d’epoca lo individuava con grande lucidità Etty Hillesum, in una sua splendida lettera, mentre infuriava il dramma della guerra e dei suoi orrori:
«Il dolore umano di cui siamo stati testimoni in questi ultimi mesi, e al quale assistiamo ancora ogni giorno, è più di quanto un individuo sia in grado di assorbire in un periodo così limitato. Del resto, lo sentiamo dire quotidianamente intorno a noi, e in tutti i modi immaginabili: «Non vogliamo pensare, non vogliamo sentire, vogliamo dimenticare il più in fretta possibile». E questo mi sembra molto pericoloso» (Amsterdam, dicembre 1942).
Ecco, questo è il rischio che corriamo anche oggi: non voler pensare, non voler sentire, dimenticare questa stagione il più in fretta possibile, come se non avesse nulla da rivelarci, dentro le fatiche che abbiamo vissuto e i limiti e le fratture che si sono evidenziate. In questo dramma Etty aveva la certezza che anche la vita sbandata avrebbe potuto di nuovo «fare un cauto passo avanti». L’inizio dell’Avvento viene a rinverdirci questa speranza di fare un passo avanti.
Da un tempo più lontano e con maggiore profondità di visione, risuonano le parole del profeta Isaia che aprono questo nuovo tempo liturgico. Parlano di «frastuono di folla sui monti, simile a quello di un popolo immenso. Frastuono fragoroso di regni, di nazioni radunate» (Is 13,4). È il frastuono di un’attesa che si vorrebbe accorciare e che insieme spaventa. Per essa, infatti, «ogni cuore d’uomo viene meno». È il «giorno del Signore» che si annuncia, momento formidabile di contemplazione del progetto di Dio, momento in cui ci viene ridetto il senso e il traguardo del nostro cammino di uomini. Questa contemplazione merita una ripartenza.